Internet è un mondo fatto di blue: è il colore di Facebook, Twitter, Reddit, LinkedIn, Microsoft, Wikipedia, di molti link ipertestuali e di tantissime homepage e finestre (nonché del Post). Non è una scelta coordinata, ma casuale, e riflette la vita reale. Come scriveva qualche anno fa il Washington Post, molti studi hanno scoperto che il blue è il colore preferito dalla maggior parte degli uomini e delle donne, indipendentemente dal loro paese. Inoltre è la tinta più spesso associata a un senso di fiducia, stabilità e competenza. È anche alla base di molte nuove sfumature alla moda, sia su internet che per l’abbigliamento e l’arredo; ancora nel 2019 Pantone, azienda considerata un’autorità nel mondo dei colori, aveva scelto il Classic Blue come colore del 2020, definendolo «rassicurante» e in grado di «dare un senso di protezione», di «solidità e fiducia».
Eppure sembra che i primi esseri umani non conoscessero il blue: non ce n’è per esempio traccia nelle pitture rupestri europee di 20mila anni fa e compare raramente in quelle africane. Nei testi più antichi arrivati fino a noi, non esistono nemmeno parole per indicarlo. Non viene mai nominato nella Bibbia (recentemente è stato scoperto che la parola tehelet, che si credeva indicasse il blue, indicava invece il rosso porpora, estratto dai molluschi trovati sulle spiagge israeliane e libanesi). Omero nell’Iliade e nell’Odissea nomina il bianco e il nero un centinaio di volte, più raramente il rosso (una quindicina), poi il giallo e il verde (meno di dieci) ma mai il blue, nonostante le tante scene marine del secondo poema, dove il mare viene definito “scuro come il vino”.
Nella maggior parte dei testi antichi, infatti, i colori più citati sono il bianco e il nero – fondamentali per distinguere il giorno dalla notte e usati per indicare il concetto di splendore e oscurità – e poi il rosso, il colore del sangue e del pericolo; solo successivamente si aggiunsero il giallo e il verde. Accadeva per esempio nelle tavolette di Ugarit (nell’attuale Siria) dell’VIII secolo a.C., negli antichi testi cinesi e nell’epopea indiana del Mahabharata, come scoprì nei suoi accurati studi il filologo Lazarus Geiger, nell’Ottocento. Geiger osservò anche che nelle moderne lingue europee la parola blue deriva sempre dalle parole nero o verde.
Inizialmente alcuni storici ipotizzarono che i primi uomini potessero distinguere soltanto il nero, il bianco e il rosso; altri sostennero – e sono le teorie più accreditate – che non erano interessati a distinguere i colori perché non erano fondamentali per sopravvivere. Il blue, poi, non è un colore così presente in natura – non esistono molte piante, fiori animali e rocce blue – e anche se noi percepiamo il mare e il cielo come tali, non è detto che valesse anche per gli antichi. Più di uno studio condotto su popolazioni indigene o su bambini a cui non era già stato indicato che il cielo è blue, lo considerano bianco o senza alcun colore.
È possibile quindi che per secoli gli umani non lo avessero identificato o che, secondo altre teorie, semplicemente non fossero interessati a descriverlo e che ogni cultura abbia la sua particolare visione cromatica del mondo, non solo nel descrivere alcuni colori anziché altri ma anche nel considerare alcuni loro tratti: per esempio i Greci antichi erano particolarmente interessati nel rendere la brillantezza e lo splendore dei colori.
Molto probabilmente i primi umani a distinguere chiaramente il blue – e ad apprezzarlo – furono gli Antichi Egizi, circa 6mila anni fa. Era quello dei lapislazzuli provenienti dalle montagne del Badakshan, nel nord-est dell’Afghanistan, una delle miniere più antiche al mondo: da qui venivano estratte molte delle pietre preziose e semipreziose degli Egiziani e dei Sumeri, e tutti i lapislazzuli in circolazione almeno fino all’Ottocento. Gli egiziani li incastonarono in gioielli, in copricapi e in maschere funerarie, come quella del faraone Tutankhamon, ma non riuscirono mai a polverizzarli in un pigmento, ottenendo solo sfarinature grigiastre.
Inventarono comunque un altro tipo di blue, il blue egizio, che commercializzarono con i Persiani, gli Etruschi, i Greci e i Romani facendo conoscere loro l’idea del blue. Riuscirono a produrlo attorno al 2.200 a.C. mescolando calcare e sabbia con un minerale contenente rame (come l’azzurrite o la malachite) e riscaldando la soluzione tra gli 800 e i 900 °C. Il risultato era un vetro blue opaco: aggiungendo bianco d’uovo, gomma o colle si otteneva infine una vernice resistente o uno smalto ceramico. Il processo però era complesso e si rischiava facilmente di finire con un pasticcio verdastro e vetroso, come ha spiegato la storica Victoria Finlay nel libro The Brilliant History of Color in Art (2014).
Il blue egiziano è considerato il primo pigmento prodotto sinteticamente dagli uomini; veniva usato per dipingere ceramiche e statue, per decorare le tombe dei faraoni e nelle pitture parietali. Era certamente prodotto ad Alessandria e si racconta che fu qui che un certo Vestorius, proveniente da Napoli, avesse imparato a realizzarlo. Tornato a Pozzuoli fondò una fabbrica da cui si diffuse il colore vestorianum o puteolanum caeruleum, molto utilizzato nella pittura vesuviana e nell’Impero Romano in generale. Anche i Romani contribuirono infatti alla diffusione del blue in tutta Europa, dalla Spagna, all’attuale Inghilterra e all’Asia Minore. Il blue egiziano rimase il più utilizzato per tutta l’era greco-romana, almeno fino al IV secolo d.C., quando nacquero altri tipi di blue.
Considerato per secoli il “vero blue” e il miglior blue mai creato dall’uomo, l’oltremare venne utilizzato per la prima volta dai pittori degli affreschi buddisti di Bamiyan, in Afghanistan, nel VI secolo d.C. Era ottenuto dai lapislazzuli estratti dalle montagne vicine, frantumati separando la parte più colorata dai minerali come pirite, calcite e dolomite, con un procedimento che, millenni dopo i tentativi degli Egizi, aveva finalmente funzionato.
Da lì arrivò in Europa, passando per Venezia, nel XIV e XV secolo, dove prese il nome di blue oltremare e si impose come «il più perfetto di tutti i colori», come lo definivano i trattati di pittura quattrocenteschi. Era molto caro, il suo prezzo rivaleggiava con quello dell’oro, ed era quindi usato soltanto nelle opere più pregiate di ricchi committenti. In particolare, fece risplendere il manto delle Madonne di tutta Europa, dopo che con il concilio di Efeso del 431 d.C. la Chiesa Cattolica codificò i colori dei santi stabilendo che il velo di Maria fosse blue.
In caso di necessità, i pittori ripiegavano sull’azzurrite, un minerale naturale conosciuto già dagli Egizi e ricomparso dopo il Mille per i murali a mezzo fresco. Magari stendendo poi un velo sottilissimo di oltremare, come faceva per esempio Raffaello. Altri lo usavano soltanto puro, come Tiziano e come l’olandese Vermeer che, si racconta, mandò in rovina la famiglia per farne scorte a sufficienza. Pare anche che Michelangelo avesse lasciato incompiuta la Deposizione di Cristo nel sepolcro perché non poteva permettersi di acquistare l’oltremare per completarlo.
Nello stesso periodo, in Cina si producevano il blue di Han e il porpora di Han, pigmenti inorganici che rispetto al blue egiziano utilizzavano il bario anziché il calcio. Nella Mesoamerica si usava il Blue Maya: era a base di indaco, un pigmento organico ricavato dalle foglie di alcune leguminose, mescolato con argilla e poi riscaldato, utilizzato nella pittura murale, nelle tombe, nella ceramica e nei codici.
L’indaco era impiegato già da Egizi, Etruschi e Romani per tingere i tessuti; si continuò a farlo anche nel Medio Evo, poi dal Cinquecento venne importato soprattutto dalle Americhe e utilizzato particolarmente in Inghilterra. Quando, nel 1704, Isaac Newton pubblicò il suo primo trattato sull’ottica, stabilì che l’arcobaleno aveva 7 colori – anziché i 5 che si osservano in natura – per rispecchiare i 7 giorni della settimana, le 7 note della scala musicale e i 7 pianeti allora conosciuti: i due che aggiunse, arbitrariamente, furono l’arancione e l’indaco. Nel 1880 il colorante naturale venne sostituito da quello sintetico, tuttora usato per tingere i blue jeans. Recentemente è stato scoperto che può essere prodotto anche dal batterio Escherichia coli: viene chiamato indaco biologico e potrebbe essere un elemento importante dell’industria tessile dei prossimi anni.
Dopo l’anno Mille e con l’introduzione dell’oltremare, non vennero inventati per secoli nuovi blue: quello egiziano venne abbandonato e si utilizzavano l’azzurrite, l’oltremare e l’indaco. Le cose cambiarono tra Settecento e inizio Ottocento che, grazie alla chimica, inaugurarono un grande periodo di nuovi blue.
Risale all’VIII-IX secolo ed era usato per ceramiche, gioielli e, in Cina, per un tipo di porcellana bianca e blue. Nel 1802 il chimico francese Louis Jacques Thénard lo sintetizzò a partire dall’ossido di alluminio, rendendolo più economico. La produzione commerciale iniziò nel 1807 e da allora fu usato da pittori come J. M. W. Turner, Pierre-Auguste Renoir e Vincent van Gogh, come alternativa economica al blue oltremare.
Noto da fine Settecento, fu perfezionato dal tedesco Andreas Höpfner nel 1805, riscaldando cobalto e ossidi di stagno. Venne usato nell’arte come pigmento dal 1860 e messo in vendita dall’azienda britannica Rowney and Company con il nome di coeruleum, perché richiamava il colore del cielo. Nel 1999, Pantone lo definì il Colore del Millennio e la tinta del futuro.
È probabilmente il blue più importante dopo l’oltremare. Fu scoperto per caso nel 1706, a Berlino, dal fabbricante di pigmenti svizzero Johann Jacob Diesbach, come racconta Benjamín Labatut nel libro Quando abbiamo smesso di capire il mondo appena uscito per Adelphi. Diesbach stava cercando di replicare il colore carminio, che si otteneva triturando migliaia di esemplari femmina di cocciniglia, un insetto infestante del Messico: aggiunse al sangue dell’animale sale di potassio e ottenne invece un blue scuro e splendente quanto il blue oltremare. Non ricavò molto dalla scoperta ma fece la fortuna del suo finanziatore, l’ornitologo, linguista ed entomologo Johann Leonhard Frisch, che lo vendette alle botteghe di Parigi, Londra e San Pietroburgo, e poi usò i proventi per avviare la prima bachicoltura prussiana. La prima grande opera in cui venne utilizzato è La sepoltura di Cristo, dipinta nel 1709 dall’olandese Pieter van der Werff, ma è più famoso per l’uso che ne fece Pablo Picasso nel suo periodo blue e il giapponese Hokusai nella Grande onda di Kanagawa e in alcune xilografie delle 36 vedute del Monte Fuji.
Sempre Labatut racconta una svolta funesta nella storia del blue di Prussia. Nel 1782 il chimico svedese Carl Wilhelm Scheele rimestò in un recipiente di blue di Prussia un cucchiaio con residui di acido solforico e inventò così il cianuro, noto anche come acido prussico. Tra le tante altre scoperte di Scheele ci fu anche l’acido arsenico, la cui prolungata esposizione fu probabilmente la causa della sua morte, a 43 anni, con il fegato spappolato, la pelle ricoperta di vesciche e semiparalizzato. Sintomi simili portarono alla morte molti bambini di tutta Europa, i cui giocattoli e dolci erano stati tinti con un colore a base di arsenico prodotto da Scheele. Era un verde smeraldo brillante, il colore preferito di Napoleone, che vi si circondò in lenzuola, tappeti e tappezzerie finendo anche lui, forse, per subire i sintomi di un avvelenamento nel corso del tempo.
Un utilizzo più felice del blue di Prussia fu invece alla base della cianotipia, uno dei primi metodi di stampa fotografica. Un negativo è posto tra la luce e un foglio su cui è stata applicata una soluzione fotosensibile a base di blue di Prussia. Venne molto utilizzato anche dagli architetti per riprodurre planimetrie e disegni tecnici in fotografie dette per questo blueprints, un termine oggi usato in inglese anche per indicare più genericamente uno schema da seguire, una traccia. Per finire, il blue di Prussia era anche utilizzato per tingere i tessuti, in particolare le divise militari, sia dei prussiani che degli eserciti napoleonici; in Francia viene anche chiamato bleu national.
La storia del blue oltremare cambiò nel 1824, quando la Societé d’Encouragement d’Industrie, la società per la promozione dell’industria francese, offrì un premio da 6.000 franchi a chi ne avesse inventata una versione sintetica. Nel giro di poco tempo ci riuscirono il chimico francese Jean Baptiste Guimet, nel 1826, e il professore tedesco Christian Gmelin, nel 1828; il premio fu vinto da Guimet e il nuovo pigmento venne chiamato anche oltremare francese. Mentre Guimet mantenne il procedimento segreto, però, Gmelin lo rese pubblico, avviando la produzione industriale del blue oltremare artificiale.
Più di centocinquant’anni dopo, la storia del blue oltremare fece un passo in più. Negli anni Cinquanta infatti il pittore francese Yves Klein ne sviluppò una versione opaca, che registrò nel 1960 con il nome di International Klein Blue (IKB). Lo utilizzò in più di 200 opere: tele monocrome, sculture e corpi di modelle che imprimevano il colore sulla tela. Il Blue Klein divenne il suo marchio di fabbrica. Una volta disse che «il blue non ha dimensioni, va oltre le dimensioni», a intendere che poteva trasportare l’osservatore fuori dalla tela.
Uno degli impieghi più noti e toccanti dell’IKB è il film Blue di Derek Jerman, che mostra per 75 minuti la stessa sfumatura accompagnata da monologhi, dialoghi e da un arrangiamento musicale.
Nel 2009 venne scoperto per caso un nuovo blue, che venne chiamata YInMn dalle iniziali dei suoi componenti: Y per l’ittrio, In per l’indio e Mn per il manganese. Fu ottenuto da Andrew Smith, studente ricercatore nel laboratorio del professore Mas Subramanian dell’università dell’Oregon, scaldando ossido di manganese a circa 1.200 °C. Venne brevettato nel 2012 e da allora è stato utilizzato per l’uso esterno prima di essere approvato per l’uso generale dall’Agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente, nella primavera del 2020, con il nome di Blue 10G513. Si trova già in molti oggetti e l’azienda Crayola ha messo in vendita un pastello di YInMn blue chiamato Bluetiful, un gioco di parole tra blue e bello (beautiful, in inglese). È un blue puro, senza aggiunta di pigmenti bianchi o neri, è molto stabile, resistente e privo di componenti tossici, contrariamente a molti pigmenti che l’avevano preceduto.
Siamo abituati ad associare l’azzurro ai bambini maschi e il rosa alle femmine, ma è una convenzione affermatasi dopo la Seconda guerra mondiale e in particolare negli anni Cinquanta negli Stati Uniti, da cui si diffuse in tutto l’Occidente. Le ragioni erano soprattutto di marketing, perché dividendo i generi in colori era più facile vendere più vestiti e più giocattoli. Prima di allora, i bambini erano stati vestiti in base alle età e non al genere, e i più piccoli erano spesso in bianco perché era più facile da candeggiare e ripulire. Nel romanzo Piccole Donne di Louise May Alcott si trova uno dei primi riferimenti della distinzione dei colori in base al genere: una bambina è identificata da un nastro rosa e un bambino da un nastro azzurro, ma era una moda francese, un vezzo esotico. Anzi fino al Novecento, se proprio c’era una suddivisione era opposta a quella che usiamo oggi: il rosso, considerato un colore acceso e battagliero che ricordava quello del sangue, era considerato maschile mentre il blue, con la storia di modestia e serenità che si portava dietro dai mantelli di Maria, era ritenuto più appropriato per le donne.
Articolo Originale di Arianna Cavallo da Il post
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